"Vedo il tetto di una mansarda spiando oltre gli alberi / Vedo un messaggio piccante scritto nelle grondaie / Il terreno sotto i miei piedi / La musica di merda e il calcestruzzo / E la punte degli edifici: ora riesco a vedere pure loro.”
Questa strofa riassume niente e tutto del primo, omonimo, album dei Vampire Weekend. Posta in apertura alla prima traccia del disco ("Mansard Roof"), funge, pur nella sua imperscrutabilità, da perfetto biglietto da visita per l’estetica e la musica della band. Una band universitaria, se ce n’è una. Istruita e saccente, cool e intellettuale. Tra le righe si legge già la vita frenetica da studente del college, le pause sotto gli alberi, nel giardino del campus, a contemplare e giudicare il mondo attorno, col distacco di chi ritiene di saperla lunga. A sentire la musica orribile proveniente dagli stereo dei compagni collegiali, e a pensare che stasera gli facciamo vedere noi come si suona. Noi, che il nostro nome è già scritto in alto, oltre le mura di questi dormitori, oltre le cotte per le studentesse maliziose e loro gonne cortissime.
Verso l’Africa, magari; quella delle percussioni che battono il ritmo del falò scoppiettante; verso l’Africa, ma filtrata dagli occhi e dalla sensibilità artistica di Paul Simon, che già due decenni prima ebbe l'intuizione di mescolare il pop anglofono con pulsazioni e armonie tribali. Verso l’Africa e di ritorno, tra le mura di questa stanza. In un party nella nostra Columbia University, illuminato da un grosso lampadario, che sai una cosa? Ci starebbe benissimo sulla copertina del nostro album d’esordio. Ci sta bene perché lo diciamo noi, perché a noi va bene così.
Ezra Koenig, Rostam Batmanglij, Chris Tomson e Chris Baio sono così. Non li puoi capire, e loro non ti porgeranno mai la mano. Dall’alto del loro inarrivabile talento, dal caldo dei loro costosissimi maglioni, dallo stile dei loro mocassini da barca, loro sanno, mentre tu no. Loro conoscevano la kwassa kwassa prima che tu cercassi il termine su Google, hanno detto che se ne fottono della grammatica di Oxford ancor prima che tu pensassi solo a metterla in discussione. Eppure la loro musica la ascolti, la ascolti senza soluzione di pausa, perché è la roba più fresca e genuina che tu abbia mai ascoltato. E in fondo sai che le loro storie, seppur celate sotto coltri di benessere e coolness, hanno un cuore umano e fragile, tiepido come quel caffè di Starbucks che ti hanno fatto scoprire loro.
"Ti va di stare sveglia / Per vedere l'alba / Nei colori di Benetton?"
Le chitarrine e le tastierine, i loro brillanti incastri, acquistano nuova vita nelle mani di questi quattro studentelli, proprio quando pensavi che trent'anni di indie-rock le avessero sviscerate per bene. Il basso e la batteria dialogano in un linguaggio nuovo, proveniente da terre lontane e inesplorate, vicine all’Equatore. E poi arrivano quelle armonie vocali, quei controcanti un po’ gai che tu che sei cresciuto a pane e Sonic Youth non pensavi di poter tollerare, e invece ti ritrovi ad apprezzare senza poter opporre resistenza. E a un certo punto capisci che non puoi farci niente: loro sono i Vampire Weekend, investiti da quella luce divina che risponde al nome di Talento Innato, e sai già che tra due anni arriveranno davvero in alto. Magari, che ne so, in cima alla classifica americana, forse con un album che si intitolerà “Contra”. Chi può dirlo?
Per ora tra le mani hai solo queste canzoni, di rarefatta concretezza. Parlano di vite vere - seppur non tue - ma sono pronte a dissolversi nei loro mille dettagli, così che tu possa ricostruirle a modo tuo, come un puzzle senza una figura di riferimento. E alla fine ne esce fuori un tuo ritratto, applicabile alla tua vita universitaria. E forse capisci che lo stesso hanno fatto i Vampire Weekend, prima di te. E per renderlo più appetibile l’hanno condito di musica zuccherina, in un pop squisito ma tagliente, come quella frecciatina verbale che ancora non hai ben capito.
Su "A-Punk" ci balli fino a consumarti le suole, gli acuti di "One (Blake's Got A New Face)" li canti fino a sfilacciarti le corde vocali. E non te ne importa nulla. Come non te ne importa nulla del significato di "Cape Cod Kwassa Kwassa" e di "Oxford Comma", perché in fondo esibiscono un afro-pop di un’eleganza e di una bellezza che farà scuola anche tra svariati decenni. C’è poi il tiro melodico di "The Kids Don’t Stand A Chance", "Bryn" e "Mansard Roof" pronto a stampartisi in testa, appiccicoso come la cotta molesta per quella compagna di corso. E tra le righe di "Walcott", anche per via del tono musicale vagamente umbratile, capisci che si nasconde un vero sentimento e non solo la pura ostentazione della propria cultura. Ne hai la prova in "I Stand Corrected" (“Avevo torto”), e pure in "Campus", dove un imbranato Koenig canta: “E poi ti vedo camminare da una parte all’altra del campus / Crudele professoressa, studiosa di amori / Come posso fingere di non volerti più vedere?”.
"I ragazzi non posso farcela", cantava chi invece ce l’ha fatta. In fondo, questo disco è la vittoria su tutto. Ci ha mostrato una band di educazione borghese, ma comunque vitale, frizzante e bruciante tanto quanto lo furono colleghi meno "nobili" di loro. Col punk, i Vampire Weekend non avevano e non hanno nulla da spartire. L’urgenza espressiva, però, può avere altre forme: può essere meditata, imbellita da barocchi intellettualismi, parlata con misurata eloquenza. E guardata dall’alto. Dalla cima del Dharamsala, ad esempio, dove stava il Dalai Lama, e il suo accento, che mi suonava normalissimo. Ecco perché non me ne frega niente, in fondo, di una virgola di Oxford. Figuriamoci del punk.
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